TRANSLATORICA & TRANSLATA 2, 2021
https://doi.org/10.18778/2544-9796.02.01

Anna Jarosz

Università di Łódź, e-mail: anna.jarosz@uni.lodz.pl
https://orcid.org/0000-0002-4880-6578


(In)traducibilità di testi letterari. I nomi dei personaggi nel dramma Obywatel męczennik di Tomasz Kaczmarek nella traduzione italiana


Riassunto

Gli aspetti principali che riguardano la traduzione e che infatti sono i concetti chiave nella discussione sull’attività di tradurre come l’equivalenza e l’intraducibilità vengono presentati nell’articolo, che cerca di spiegare e chiarire gli studi sulla traduzione e il loro sviluppo riguardando particolarmente la traduzione letteraria. Tradurre i testi letterari significa approfondire, comprendere ed esplorare il mondo unico ed eccezionale dell’autore, cioè entrare in questo mondo e poi creare un duplicato in un’altra lingua che potrebbe evocare simili reazioni, emozioni e riflessioni.

Parole chiave: intraducibilità, equivalenza, equivalente, testo di partenza, significato, polisemia, campo semantico, adeguatezza

(Un)translatability of literary texts. The names of the protagonists of Obywatel męczennik written by Tomasz Kaczmarek in Italian translation

Summary

The paper presents the key concepts in Translation Studies such as untranslatability and equivalence. The author seeks to gain an insight into the theories relevant for translation and their development especially in the field of literary translation. To translate means to understand and explore the unique and extraordinary world created by the author in order to be able to reproduce it in another language and to evoke similar reactions, emotions and reflections.

Keywords: untranslatability, equivalence, equivalent, source text, meaning, polysemy, semantic field, adequacy

Introduzione

Quindi, anche quando – in linea di diritto – si sostenga l’impossibilità della traduzione, in pratica ci si trova sempre di fronte al paradosso di Achille e della tartaruga: in teoria Achille non dovrebbe mai raggiungere la tartaruga, ma di fatto (come insegna l’esperienza) la supera. Forse la teoria aspira a una purezza di cui l’esperienza può fare a meno, ma il problema interessante è quanto e di che cosa l’esperienza possa fare a meno. Di qui l’idea che la traduzione si fondi su alcuni processi di negoziazione, la negoziazione essendo appunto un processo in base al quale, per ottenere qualcosa, si rinuncia a qualcosa d’altro – e alla fine le parti in gioco dovrebbero uscirne con un senso di ragionevole e reciproca soddisfazione alla luce dell’aureo principio per cui non si può avere tutto. (Umberto Eco 2010: 18)

La traduzione è stata sempre presente nella vita dell’uomo. Lo sviluppo industriale, i viaggi, il mercato comune, il globalismo onnipresente, tutti hanno contribuito alla crescita delle esigenze nell’ambito di comunicazione sia orale che scritta tra la gente. Ogni giorno molti testi economici, politici e tecnici sono tradotti per effettuare la comunicazione internazionale nei differenti campi e nelle varie discipline della vita. La traduzione letteraria è forse un piccolo frammento dell’insieme di tutte le traduzioni, ma sembra un frammento molto esigente e particolare.

Il concetto di equivalenza traduttiva

Il concetto di equivalenza traduttiva è molto importante e fondamentale nell’ambito dei Translation Studies.

Nell’ambito di T.S. il problema dell’equivalenza è stato affrontato da due diverse direzioni. La prima, come prevedibile, pone l’enfasi su problemi particolari della semantica e sul trasferimento del contenuto semantico da LP a LA. All’interno della seconda, che esamina il problema dell’equivalenza dei testi letterari, il lavoro dei Formalisti russi e dei Linguisti di Praga, assieme ai più recenti sviluppi nell’analisi del discorso, ha esteso il problema dell’equivalenza alla sua applicazione nella traduzione dei testi letterari. James Holmes, per esempio, pensa che l’uso del termine equivalenza sia ‘perverso’, poiché richiedere l’uguaglianza è pretendere troppo (Bassnett 1993: 46).

L’uso del termine ‘perverso’ è appunto abbastanza controverso; quando possiamo dire che la traduzione è equivalente all’originale e se è infatti possibile? Eugene Nida nel suo saggio Principi di traduzione esemplificati dalla traduzione della Bibbia (2010) riassumendo l’attività di traduzione della Bibbia conclude che ci sono quattro principi di base della traduzione:

  1. La lingua consiste in un insieme sistematicamente organizzato di simboli “orali-auricolari” (...)
  2. Le associazioni fra i simboli e i referenti sono essenzialmente arbitrarie (...)
  3. La segmentazione dell’esperienza in simboli discorsivi è essenzialmente arbitraria (...)
  4. Due lingue non presentano mai sistemi identici di organizzazione dei simboli in espressioni dotate di senso (...) (Nida 2010: 153).

Da questi principi di base risulta che “nessuna traduzione in una lingua di arrivo può essere l’equivalente esatto del modello nella lingua di partenza. Vale a dire, tutti i tipi di traduzione comportano (1) perdita di informazione, (2) aggiunta di informazione e/o (3) deviazione dell’informazione” (Nida 2010: 153). All’interno di una lingua non vi è sinonimia perfetta, tanto più sembra impresa impossibile trovare parole equivalenti in due lingue diverse tenendo in conto il fatto che ogni lingua rappresenta un patrimonio culturale unico e differente dagli altri. Secondo Newmark (1988) che rappresenta il punto di vista legato alla tradizione degli studi britannici, una certa perdita di significato è inevitabile nell’attività di traduzione. Si può specificare molti fattori responsabili di questo fenomeno.

Il fattore principale riguarda la situazione in cui il testo di partenza contiene riferimenti specifici che riguardano l’ambiente naturale, la cultura e le istituzioni. La perdita sembra inevitabile dato che il trasferimento o la sostituzione può solamente avvicinarsi al termine di origine. Anche la stessa parola ‘traduzione’ in questo contesto non è adeguata. Quali sono quindi le soluzioni per il traduttore? Ve ne sono molte, tuttavia nessuna può soddisfare completamente. Il traduttore potrà:

Qualsiasi decisione il traduttore prenda, la perdita di senso non è elevata qualora tra le due lingue coinvolte sussista la cosiddetta sovrapposizione culturale (Newmark 1988).

La seconda e inevitabile causa della perdita di significato risiede nel fatto che due lingue hanno diversi sistemi lessicali, grammaticali e fonetici. Poche parole, locuzioni o frasi hanno precise corrispondenze nelle quattro dimensioni proposte da Newmark (1969): formalità, sensazione, generalità o astrazione e valutazione. Inoltre, ogni lingua ha le sue idiosincrasie sia grammaticali sia lessicali usate in un proprio e unico modo. Quindi è quasi impossibile che gli usi particolari dell’autore dell’originale e del traduttore si incontrino e coincidano. Ogni persona aggiunge il suo proprio senso alle parole usate ed è molto difficile afferrare il concetto nascosto dietro le parole.

L’ultima causa può essere dovuta al fatto che l’autore e il traduttore abbiano differenti teorie di significato e non condividono gli stessi valori di riferimento, anzi possono riferirsi a valori differenti. Il traduttore, infatti, concepisce il testo alla luce del proprio sistema di valori conferendogli una sua interpretazione. Può darsi che il traduttore riconosca simbolismo dove non era inteso, oppure colga una pluralità di significati là dove – nelle intenzioni dell’autore del testo originale – ve n’era uno soltanto.

Non è possibile non citare a questo punto il concetto di equivalence in difference introdotto da Roman Jakobson (1989). Nella traduzione “bene” non significa “nello stesso modo”, al contrario lo stesso effetto viene ottenuto tramite diversi mezzi. Dopotutto, l’originale e la traduzione si distinguono come testi, ma non dovrebbero distinguersi come comunicazioni. Il termine ‘fedeltà’ in sé è molto fuorviante, siccome suggerisce una duplicazione ed una riproduzione. Anche l’aggettivo molto spesso usato nella terminologia di traduzione ‘adeguato’ è un sinonimo velato del termine ‘fedele’ (Lipiński 2004: 36). Queste considerazioni fanno emergere domande come: adeguato a che cosa? Alla forma linguistica dell’originale? All’intenzione dell’autore? Al contenuto della comunicazione? Ai suoi valori estetici? Il concetto di Jakobson di equivalence in difference descrive e riflette il fenomeno della traduzione con la sua complessità e l’insieme dei dilemmi che aspettano al traduttore.

Nida (1964) distingue due categorie di equivalenza: formale/funzionale e dinamica. L’equivalenza formale significa il tentativo di riprodurre la forma dell’originale nel modo più fedele mentre l’equivalenza dinamica è soggetta ad un cambiamento e a un adattamento, perché è considerato più importante ritenere ed evocare lo stesso effetto sul lettore.

Anton Popovič (1976) invece distingue quattro tipi di equivalenza traduttiva:

  1. Equivalenza linguistica che si riferisce alla omogeneità quindi alla traduzione letterale, cioè parola per parola a livello linguistico.
  2. Equivalenza paradigmatica che significa equivalenza degli elementi grammaticali e che secondo Popovič è superiore e più importante rispetto all’equivalenza del lessico.
  3. Equivalenza stilistica (traduttiva) che si riferisce all’equivalenza funzionale degli elementi ed espressiva, cioè lo stesso effetto.
  4. Equivalenza testuale (sintagmatica) che significa l’equivalenza sul livello del testo, la sua forma, configurazione e la sua struttura sintagmatica (Popovič, 1976).

Se decidiamo di tradurre metafore e frasi idiomatiche, ci troveremo nel campo dell’equivalenza stilistica, cioè dovremo trovare una frase idiomatica o una metafora in LA che avrà una funzione equivalente a quella di LP.

Il concetto di equivalenza percepita come identità di senso e del messaggio si colloca al centro della concezione della traduzione. Un testo è composto da una combinazione complessa di valori semantici, formali e anche stilistico-pragmatici (Bertozzi 1999). Questi fattori prendono ancora più importanza quando ci si rende conto che un testo non è nato in un vuoto, ma in una situazione particolare che è correlata a fattori extralinguistici, ossia esterni al testo. Per comprendere il significato bisogna quindi riflettere su tutti i fattori sia linguistici che extralinguistici. L’analisi dei fattori nel loro complesso è uno strumento per l’individuazione del significato.

A questo proposito, è inevitabile considerare il fenomeno della polisemia, che può rendere difficile la ricerca di equivalenti per la traduzione. “Alla singola unità linguistica (al lessema ad esempio) non corrisponde un solo significato, bensì una serie complessa di valori semantici: ogni segno linguistico, infatti, si configura come un vero e proprio conglomerato di elementi semantici, come un complesso semantema che aggrega in sé tratti segnici di origine e valenza diverse” (Bertozzi 1999: 21). Bisogna evidenziare e sottolineare qui che questa citazione di Bertozzi (1999) infatti riassume e riprende il modello di Sergio Cigada (1988) che ha introdotto i termini di tratto segnico e di semantema per spiegare i meccanismi di semantica. Un segno linguistico di un codice può quindi ottenere un significato unico di un segno qui inteso come complesso degli usi possibili che appartiene soltanto al suo sistema e perciò non può corrispondere a un segno dell’altro codice. Il termine polacco proveniente dalla regione di Łódź ma non conosciuto nelle altre regioni della Polonia – ‘migawka’ – ha un significato speciale e unico riconosciuto solamente in questa regione. La parola denomina una specie di ‘abbonamento mensile’ oppure ‘tessera mensile’ che viene usata invece di biglietti per i mezzi pubblici di trasporto oltre al significato usato nell’ambito specialistico dell’ottica, cioè ‘otturatore’ o ‘snapshot’. L’uso nella regione di Łódź deriva probabilmente dal contesto e dalla situazione in cui la tessera viene mostrata (in un modo molto breve ‘migać’ : ‘mostrare rapidamente’) oppure dal fatto che ci permette di sfuggire al pagamento per il biglietto ogni volta che prendiamo il mezzo pubblico (cfr. ‘migać się od czegoś’ : ‘sfuggire a qualcosa’). Quindi non è possibile trasmettere tutto il campo semantico che è presente nell’area semantica del segno di langue di questa parola in un’altra lingua, neanche l’espressione equivalente polacca (‘bilet miesięczny’, it. ‘biglietto mensile’) può esprimere l’insieme di connotazioni che ‘migawka’ evoca.

(In)traducibilità – argomenti scelti

Il concetto di intraducibilità contiene in sé stesso tanta ambiguità e anche molte contraddizioni. Siccome la lingua è un oggetto di rilevanza psicolinguistica, sociolinguistica, culturale e si manifesta in atti individuali che possono essere anche molto idiosincrasici, sembra che la comunicazione completa non sia possibile e attuabile neppure se gli atti linguistici siano elaborati per mezzo di una medesima lingua. Tuttavia, una comunicazione efficace sia endolinguistica sia interlinguistica si effettua ed è un fatto riscontrabile e ineliminabile nella realtà. Non si può negare il fatto che la traduzione è stata parte delle civiltà nel corso di tutte le epoche e quindi la realtà ne attesta la possibilità. La traducibilità è la norma, mentre l’intraducibilità si verifica solo in alcune condizioni. Di solito la critica nei confronti della traduzione (intesa come un processo ed un’attività) riguarda errori riscontrabili in traduzioni individuali e traduttori mediocri che producono testi mediocri.

Un traduttore deve avere una conoscenza completa delle due lingue in ogni loro aspetto, ma nello stesso tempo delle culture e delle discrepanze e differenze che esistono tra le lingue. “It is the translator’s ability not to confuse languages in contact that indicates his knowledge of those languages and the mastery of his profession, and thus distinguishes him from the bilingual person in the usual sense of the word” (Delisle 1998: 21). In questo passo, Delisle sottolinea che è la capacità di cogliere le differenze tra le lingue e i loro sistemi che caratterizza un ottimo traduttore. Un tale traduttore deve essere in grado di evitare ogni interferenza della LP. In tutti i casi di interferenza della LP (nell’ambito di lessico, aspetti culturali, grammatica, oppure sintassi) l’integrità della traduzione e anche il suo senso sono di solito travisati e falsati.

Tuttavia, Newmark (1988) sostiene che l’interferenza translinguistica può essere usata in un modo creativo nella traduzione comunicativa. Egli afferma che le lingue potrebbero beneficiare della traduzione letterale di alcuni modi di dire ed alcune espressioni. A suo avviso, vi sono lacune e carenze culturali che potrebbero essere tamponate tramite un trasferimento letterale da una lingua all’altra. Un esempio tipico sembra l’espressione ‘Buon appetito’ che non ha equivalente in inglese – in tale lingua manca infatti un’espressione corrispondente o, al più, è sporadicamente usata l’espressione francese ‘Bon appetit’. Ci sono degli equivalenti in tedesco ‘Guten Appetit’ e anche in spagnolo ‘Que aproveche’. Si tratta poi di vedere se questa locuzione venga utilizzata nelle lingue nello stesso modo, cioè se sia compresa come un segno di buone maniere e di buona educazione. Per quanto riguarda la storia della lingua, in italiano l’uso di ‘Buon appetito’ rimanda a un assetto sociale che colloca il mittente in posizione superiore rispetto al destinatario: la locuzione era usata per rivolgersi alla servitù quando la nobiltà le offriva la possibilità di partecipare ai banchetti. Oggi non è più avvertito questo scarto e non vi è il rischio di offendere l’interlocutore. Sembra inoltre che tale locuzione possa essere associata all’allusione all’istinto animale che porta a fruire del cibo disponibile. In Francia invece è molto popolare che il cameriere dica ‘Bon appetit’ servendo il pasto nel ristorante. In Polonia è tipico usare la locuzione ‘Smacznego’ quando ci si siede a tavola. Tuttavia, in altre situazioni sembra che sia utilizzata in modo inappropriato, come per esempio quando a chi stia mangiando un’altra persona dica ‘Smacznego’. In questo caso l’uso appare incongruo, scortese e maleducato, quasi a dire: ‘Buon appetito a te che stai mangiando, io invece no’. Può accadere che chi stia mangiando rischi di strozzarsi con il cibo, cercando di essere gentile e dire grazie.

Newmark (1988) discute anche un caso di un altro gap culturale in inglese che potrebbe essere colmato. In tedesco si dice ‘Auf Wiedersehen’ (‘Ci vediamo’ : ‘Do zobaczenia’ : ‘See you’), ma anche ‘Auf Wiederhören’ (‘Ci sentiamo’ : ‘Do usłyszenia’) per cui non c’è una locuzione equivalente in inglese. Quindi Newmark postula che venga creata l’espressione ‘Hear you’ in inglese che potrebbe servire allo stesso scopo. Ovviamente tale creatività e arricchimento di una lingua esige un accordo comune ed un’abituale approvazione. La stranezza e l’estravaganza non contribuiscono alla comprensione del testo, al contrario rendono il testo difficile da leggere e capire, ed il suo contenuto può essere perso.

Se dovessimo accettare alcune teorie linguistiche e filosofiche dell’intraducibilità (Humboldt 1836; Weisgerber 1964; Sapir 1921; Whorf 1956), ogni testo scritto sia un’opera d’arte letteraria che una tesi scientifica esisterebbe solamente nella comunità della lingua del testo d’origine. Un tentativo di tradurlo in un’altra lingua comporterebbe un’ingerenza nel suo contenuto. I grandi scrittori come Cervantes, Dante, Hugo o Voltaire pensavano che la traduzione fosse un processo che riduceva considerevolmente il valore artistico dell’originale. D’altra parte, comunque, tutti sono d’accordo sul fatto che vi sono traduzioni buone, anzi migliori in alcuni casi rispetto agli originali. Un esempio per sostenere questo punto di vista sarebbe la traduzione eccellente della prosa di E.A. Poe in francese fatta da Ch. Baudelaire.

Le teorie filosofiche di linguisti come Humboldt (1836), Sapir (1921) oppure Whorf (1956) che accentuano l’impossibilità di traduzione sono basate sul concetto della percezione di una comunità la cui lingua determina come la realtà venga denominata e descritta. Secondo Sapir “non esistono due lingue che siano sufficientemente simili da essere considerate come rappresentanti della stessa realtà sociale. I mondi in cui vivono differenti società, sono mondi distinti, non sono semplicemente lo stesso mondo con etichette differenti” (Sapir 1972: 58). Sembra possibile individuare grandi differenze tra segni linguistici che caratterizzano diverse lingue naturali, anche nel contesto dello sviluppo storico, quindi a livello non solo sincronico, ma anche diacronico. Gli idiomi, le locuzioni e le espressioni sono manifestazioni di situazioni peculiari di ogni particolare comunità. Come osserva Sapir (1972) comunque, l’intraducibilità non è legata all’incapacità dei parlanti di trovare soluzioni però al sistema linguistico stesso. Egli riconosce anche che la relatività delle lingue non è dovuta alla diversa capacità cognitiva dei parlanti. Tuttavia, la relatività linguistica sebbene neghi la teoria della traducibilità (la quale invece si basa sul concetto di universalismo linguistico) ha sicuramente contribuito allo sviluppo della linguistica e anche alla sensibilizzazione di traduttori quando si mettono a trasmettere un significato da una lingua all’altra. Tale approccio teorico ha anche delle conseguenze immediate come ad esempio la consapevolezza che la traduzione letterale non è possibile. Menin (1996) discute un esempio per appoggiare questo argomento.

Il termine tedesco ‘Volk’ non corrisponde all’italiano ‘popolo’, al francese ‘peuple’, all’inglese ‘people’, ecc. Il concetto di Volk in area tedesca è infatti legato all’evoluzione storica della nazione tedesca e alle vicende anche drammatiche che l’hanno contrassegnata. ‘Volk’ non significa infatti la stessa cosa in un testo tedesco del Settecento, in un programma politico dell’Ottocento o in un proclama nazista del 1940. Nessun traduttore è quindi autorizzato a tradurre sempre, e in modo meccanico, ‘Volk’ = ‘popolo’ (Menin 1996: 28).

Anche se Menin semplifica l’argomento e non tiene distinto ‘Volk’ come unità di langue saussuriana da ‘Volk’ come unità di parole saussariana, ciò che merita attenzione è il riflettere sul contesto, che è la capacità posseduta da un traduttore consapevole e cosciente, quella che manca a una macchina. Come afferma Teubert (2004), la traduzione riguarda l’uso di una parola e non la parola stessa. Per questo motivo il traduttore deve considerare il segmento di testo il quale rappresenta un’unità di traduzione. Per di più, a suo avviso, questo segmento di solito trova corrispondenza in segmenti di testo di altra lingua. Cioè si traduce la parole (l’atto espressivo individuale) in tutta sua complessità, non l’unità di langue (sistema linguistico).

La linguistica strutturale (de Saussure), la teoria di campi semantici (Trier – Weisgerber) e l’etnolinguistica di Lee Whorf (con i suoi saggi sui linguaggi dei nativi americani) ci portano al concetto di inerzia strutturale (Menin 1996) che limita ogni termine alla sua propria lingua nel senso che il termine esprime un valore culturale ed etnico legato strettamente e unicamente alla sua cultura. Questo punto di vista considera la traduzione come un fenomeno trans-culturale.

Come spiegare, però, il processo traduttivo e quello che effettivamente succede quando un traduttore traduce un testo? A che livello opera il traduttore quando cerca di trovare un termine equivalente in un’altra lingua? Una dimensione meritevole di indagine riguarda i motivi che guidano a scegliere una corrispondenza tra altre possibili corrispondenze. Il relativismo linguistico, come pure la teoria della traduzione di impronta strutturalista, non chiariscono come si effettuino gli atti comunicativi interlinguistici e non sono in grado di spiegare il fenomeno dell’equivalenza (che si trova al centro dell’operazione traduttiva).

Lo sviluppo degli studi di pragmatica ha contribuito in gran parte alla spiegazione dei processi che accadono durante il fenomeno traduttivo. In pragmatica è considerata, fra l’altro, la componente azionale della comunicazione verbale, con la teoria degli Speech Acts (Austin 1962; Searle 1969). L’attenzione è spostata dal sistema e dai rapporti tra i suoi elementi alle relazioni fra l’enunciato (ingl. ‘utterance’, che equivale, a un di presso, all’atto linguistico concreto), l’intenzione comunicativa, gli interlocutori e il contesto della situazione comunicativa.

A questo proposito, inoltre, è stato osservato che

La riflessione pragmatica ha inoltre aperto la strada a una più generale comprensione dei fini e degli scopi con cui un traduttore elabora un testo originale, sulla base di quelle che possono essere identificate come le priorità del ‘committente’. (...) Così, ad esempio, una pubblicità può essere tradotta in modo contenutistico se il committente vuole conoscere gli argomenti e le strategie retoriche adottate nel contesto originale oppure può subire un processo di profonda rielaborazione per adattarla al nuovo contesto, quello di arrivo, e obbedire così agli stessi fini retorico-persuasivi per cui era stata creata (Menin 1996: 30).

Una proposta più adeguata per spiegare la possibilità della traduzione è offerta dalla linguistica testuale là dove si osserva che gli enunciati devono essere analizzati come testi, e devono essere considerati i contesti situazionali, gli scopi e le intenzioni comunicative delle soggettività coinvolte nel processo traduttivo.

Si traduce, si trasla [sic!] non il codice, ma il testo, non l’intera potenzialità semantica del segno a livello di langue, ma la sua attualizzazione parziale nell’atto di parole, non il complesso dei valori possibili che l’unità linguistica può assumere entro il codice, ma lo specifico valore che essa effettivamente assume entro un certo testo, in virtù di quei meccanismi di contestualizzazione, ovvero di costituzione del senso del testo, che operano sui valori virtuali di langue dell’unità linguistica (Bertozzi 1990: 24).

Con queste affermazioni, Bertozzi chiaramente e sostanzialmente riprende la teoria del culminatore semantico di Sergio Cigada (1988). Inoltre, un determinato contesto specifica e stabilisce il significato e quindi l’equivalenza semantica coincide con e corrisponde all’equivalenza funzionale (Halliday 1992: 16). Lo scopo della traduzione è l’esprimere il senso del contenuto del testo e il significato del messaggio che il testo veicola. Se questo viene preso come il principio e se il senso risiede nel testo, si può concludere che “la traduzione dev’essere rigorosamente intesa come un’equivalenza fra testi” (Baggio 1984: 29). Tuttavia, con questa definizione della traduzione, Baggio non cerca di dire né che tutti i testi siano traducibili né che siano intraducibili. Appare quindi che l’equivalenza non significhi la traducibilità.

Il livello macrostrutturale del testo (Van Dijk 1980) è una componente rilevante per il processo traduttivo. La prospettiva teorica che pone il concetto di macrostruttura è compatibile con l’ipotesi di struttura semantica generale del testo che è interlinguistica e non si limita al piano intralinguistico. Questa struttura si riferisce alla creazione dei testi in generale e non esprime il valore unicamente appartenente a una singola lingua.

Le macrostrutture ci dicono sostanzialmente cosa facciamo nel mentre si traduce un testo. Noi non operiamo tanto sui componenti di superficie (che sono rigidamente intralinguistici) ma sulla struttura generalizzata e quindi comunicabile dei concetti riproponendo gli stessi elementi macrostrutturali nella lingua di arrivo (Menin 1996).

Torniamo ora su un aspetto già considerato in precedenza: un testo è un atto di comunicazione, con una funzione e uno scopo. A questo proposito, Newmark (1988), agganciandosi alla Sprachtheorie di Bühler (1934) ritiene che Bühler abbia sviluppato una teoria per la quale le funzioni del linguaggio cambiano a seconda del tipo di testo. Così egli ritiene di poter reinterpretare le funzioni del modello di Bühler (1934) come:

  1. funzione espressiva o emotiva in cui l’emittente e la forma sono più importanti. Questa funzione è molto importante nei testi letterari che esprimono l’autore stesso, la sua lingua che trasmette le sue emozioni ed il suo particolare modo di percepire la realtà,
  2. funzione referenziale o rappresentativa in cui il contesto ed il contenuto sono al centro, quindi si tratta qui dei testi informativi, tipo giornalistici che pongono l’accento sul significato e sul contenuto,
  3. funzione connotativa o appellativa in cui il destinatario e l’effetto sono più importanti. Qui dunque si tratta dei testi di istruzioni come manuali o le pubblicità (Newmark 1988: 13).

È importante individuare la tipologia testuale e scoprire la relativa macrofunzione dell’originale. Poi, il traduttore dovrebbe analizzare anche lo scopo della traduzione e il tipo di lettore per cui vuole tradurre il testo. Ci sono molteplici criteri che devono essere considerati, e molto spesso la tipologia testuale identificata non implica definitivamente l’applicazione di un particolare criterio. Diverse situazioni richiedono diverse scelte e anche una combinazione di strategie. Il traduttore dunque opera su tre livelli (Newmark 1988):

Come tradurre l’intraducibile? – alcuni esempi letterari

Il termine dell’(in)traducibilità riflette il dualismo delle concezioni e delle teorie nel campo della traduzione. C’è un ampio spettro delle opinioni partendo dall’estremità della traducibilità totale (visto che la comunicazione internazionale esiste ed è molto proficua e produttiva) e finendo con l’estremità su cui si fonda la teoria dell’intraducibilità derivante da diversi contesti culturali in cui i testi sono prodotti e radicati. Gli argomenti molto spesso citati per dimostrare l’intraducibilità nel senso assoluto si riferiscono alle traduzioni della poesia e dei testi radicati profondamente nella cultura della lingua di partenza come ad esempio gli scherzi linguistici e i giochi di parole. La questione non è invece così semplice come sembra ai sostenitori della teoria dell’intraducibilità completa. Lipiński (2004) ha esaminato le traduzioni di Lokomotywa di Julian Tuwim e di Wesele di Stanisław Wyspiański. Sono i testi molto associati con la cultura polacca, come gemmi della cultura, sempre popolari e conosciuti da tutti i polacchi.

La straordinaria potenza di Lokomotywa risulta dalle caratteristiche molto tipiche della poesia di Tuwim. Il poeta ha riempito l’opera con moltissime onomatopee che riflettono i suoni della locomotiva a vapore e del treno in movimento. Se il testo viene recitato in un modo particolare per intensificare quelle onomatopee, si ottiene il risultato di vero suono prodotto dalla locomotiva a vapore. Un altro elemento che contribuisce a una profonda ed evocativa ricezione acustica della poesia è il ritmo, molto espressamente accentuato, che imita il suono del treno che si muove sui binari. Tuwim utilizza anche altri mezzi stilistici e linguistici come ad esempio rime interne, allitterazioni, ripetizioni, anacoluti, interiezioni, e anche l’intensificazione del discorso attraverso la punteggiatura e molti segni d’interpunzione: trattini, punti esclamativi, punti interrogativi e puntini di sospensione. La poesia di Tuwim contiene anche tratti molto caratteristici della poesia per i bambini in generale e del loro modo di percepire la realtà e il mondo che li circonda. Quindi ci sono certe immagini suggestive e pittoresche, espressioni e locuzioni piene di umore come per esempio: ‘grubasy jedzące tłuste kiełbasy’ (it. ‘i grassoni che mangiano salcicce grasse’). Inoltre, vi sono degli elementi didattici introdotti con moderazione e discrezione che potrebbero essere utilizzati nell’insegnamento di conti oppure di come funziona la locomotiva a vapore nel modo molto accessibile per i bambini. Come ha scritto Głowiński (1969), Tuwim affronta i temi che possono affascinare l’immaginazione dei bambini ma in un modo che accontenta i più esigenti conoscitori ed esperti letterari.

Senza dubbio, Lokomotywa è un’opera d’arte letteraria. Lipiński (2004) cerca di rispondere se è possibile tradurla oppure se è intraducibile siccome è troppo radicata nella cultura e nella lingua polacca. La risposta dipende dai criteri della traduzione che vogliamo adottare e dalla libertà che decidiamo di consegnare al traduttore. Senza interferenze del traduttore nel testo originale il compito non sarà possibile. Quello non significa comunque che la traduzione non possa essere ben riuscita. Al contrario, è possibile che faccia piacere ai lettori stranieri sia bambini che adulti. Lipiński (2004) esamina quattro (una fatta da lui stesso) traduzioni della poesia di Tuwim in tedesco facendoci capire che il mito dell’intraducibilità è definitivamente da sfatare. Per quanto riguarda l’italiano sembra che esista solamente una traduzione fatta da Monika Woźniak (2003).

A proposito del dramma di Wyspiański, il compito del traduttore diventa ancora più difficile, poiché il testo del dramma è incomprensibile senza che si capiscano i meandri della storia polacca. Inoltre, anche le messe in scena e le interpretazioni polacche sono diverse, siccome il testo è pieno di simboli e segni ambigui che potrebbero essere decifrati in vari modi. Il testo significava un’altra cosa per gli spettatori nell’anno 1901 che per le generazioni successive. Nuovi avvenimenti storici ed eventi politici nella ricca storia polacca permettevano di creare molteplici interpretazioni e di aggiornare quelle che già esistevano. Non solo il linguaggio che rappresenti la borghesia, il dialetto dei contadini oppure il particolare modo di parlare degli ebrei sono molto ermetici, anche la scenografia è molto rilevante, i mobili nella stanza, i quadri sulle pareti, gli abiti, i colori ed i suoni da altre stanze vicine. Lipiński (2004) suggerisce un modo molto controverso per risolvere il problema dell’intraducibilità del dramma di Wyspiański che è un’opera per mettere in scena, quindi anche le didascalie e le note a piè di pagina non servono per aiutare allo spettatore. Secondo Lipiński, gli spettatori stranieri dovrebbero essere invitati ad una lezione che gli presenterebbe la situazione politica ed il contesto sociale del dramma. Sembra una soluzione strana, ma se ci si ricorda che l’effetto è importante, è forse l’unica soluzione che consenta di superare il problema dell’intraducibilità.

Un altro aspetto dell’intraducibilità si riferisce agli scherzi linguistici e ai giochi di parole. Per illustrare questo tema, Lipiński cita il libro di Z. Tęcza (1997) Das Wortspiel in der Übersetzung che prova che 89% dei giochi di parole provenienti dalla creazione artistica di Stanisław Lem presi come esempi sono stati tradotti con successo, malgrado siano state applicate procedure diversissime come ad esempio: innesti, adattamenti, imitazioni, creazioni, neutralizzazioni, eliminazioni e spiegazioni. Anche se lo spettro delle procedure e tecniche è così ampio, ciò che conta è il risultato, cioè il fatto che l’autore è riuscito a tradurre i giochi di parole realizzando lo stesso scopo comunicativo nella lingua d’arrivo. Non si può resistere alla tentazione di citare qui un esempio del testo apparentemente intraducibile scelto dal libro di Tęcza (1997: 88)

Trzy, samołóż wywiorstne, gręzacz tęci wzdyżmy,
Apelajda sękliwa borowajkę kuci.
Greni małopoleśny te przezławskie tryżmy,
Aż bamba się odmurczy i goła powróci. (in Lipiński 2004: 59)

Non appare che il testo abbia senso, è piuttosto un insieme di pseudo-lessemi radicati nei paradigmi della grammatica polacca. Come quindi tradurlo? Nello stesso modo, trovando una serie di pseudo-lessemi radicati nei paradigmi della grammatica della lingua d’accoglienza. Tęcza (1997: 88) lo ha fatto così (con molto successo) in tedesco:

Von Dreigeweiden spill ich schlingen,
Nie Pleurazwerch und Nier verzween,
Und will mir jetzt kein Lied gelingen,
So wird es ewig nicht geschehn.

Non sempre si traduce il senso e, a volte, la traduzione rende l’assurdità. È essenziale che nella traduzione sia reso, oltre al senso, anche il tratto dell’assurdo che l’originale veicola. Questa conclusione fornita da Lipiński (2004: 59) dispone della capacità di riassumere tutte le riflessioni sull’intraducibilità.

Lo scopo della ricerca

La ricerca riguarda un tentativo della traduzione polacco-italiana del dramma scritto da Tomasz Kaczmarek. Il dramma è destinato per essere messo in scena che ancora intralcia il processo traduttivo nel senso che la gamma delle soluzioni letterarie diventa limitata. L’analisi che verrà presentata copre soltanto una frazione dell’insieme delle scelte e decisioni che il traduttore del testo drammaturgico deve affrontare, cioè i problemi collegati alla traduzione dei nomi dei personaggi. Questo passo è essenziale per poter proseguire l’attività della traduzione.

I nomi dei personaggi nel dramma Obywatel Męczennik scritto da Tomasz Kaczmarek

Tomasz Kaczmarek è uno dei più interessanti drammaturghi contemporanei polacchi associato con il cosiddetto Laboratorio del Dramma (Laboratorium Dramatu). Ha sviluppato e usa il suo proprio linguaggio, molto radicale con tanti accenni e neologismi, il linguaggio che unisce diversissimi elementi come ad esempio: il gergo moderno, l’ispirazione da Witkacy (Stanisław Ignacy Witkiewicz) ed il modo di cercare l’altro fondo nella parola come nella poesia di Miron Białoszewski. Tutto quello produce gli effetti molto attraenti ed intriganti che comunque richiedono il lavoro di un regista con un’aperta e innovativa personalità per poter sentire e capire le intenzioni dell’autore. Il dramma Obywatel męczennik (Cittadino Il Martire – traduzione propria, accettata dall’autore) scritto da Tomasz Kaczmarek non è stato ancora tradotto in italiano.

Il primo più grave problema che il traduttore deve affrontare anche prima di incominciare la traduzione riguarda i nomi dei personaggi che appaiono nel dramma e che sono:

Kazik
Marzenka, jego żona obecnie w ciąży
Gienia, matka Kazika, teściowa Marzenki
Sielski, ich sąsiad
Morsztynowa
Dukla
Proboszcz
Doktor Laparoscopo

Di primo acchito essi non appaiono molto elaborati, al contrario danno un’impressione di essere familiari e comuni. La prima questione molto importante risiede nella scelta tra ritenere i nomi originali oppure cercare di elaborare i nomi equivalenti in italiano. Siccome un testo drammatico viene di solito scritto per essere messo in scena e quello è il suo scopo principale tutto deve essere chiaro per uno spettatore nel teatro. Per questo motivo sembra giusto cambiare i nomi affinché il pubblico italiano capisca chi sono i personaggi. I nomi polacchi non significherebbero niente. L’unico motivo per ritenere i nomi originali è lo scopo di straniare il contesto e portare lo spettatore italiano oppure il lettore italiano all’autore e al contesto totalmente polacco. Questo argomento sembra giusto e non è privo di raggionamento. Ci possono essere infatti due modi di affrontare il dramma: portare tutto il contesto e la situazione al lettore o allo spettatore italiano, quindi adattarlo oppure portarlo all’autore straniandolo così per lo spettatore italiano.

(...) Ogni lingua ha i suoi meccanismi peculiari e spetta al traduttore decidere quale nome lasciare nella sua forma originale e quale tradurre, quale declinare e quale no. Il traduttore deve anche decidere se scegliere la grafia della lingua dell’originale o di quella in cui traduce. Per il momento non ci sono regole precise che risolverebbero questi problemi (Antończyk & Panasiuk 1998: 54).

In polacco esistono molte forme diminutive dei nomi come ad esempio ‘Anna’, ‘Ania’, ‘Anusia’, ‘Aneczka’ (ipocristici di ‘Anna’) e potrebbe essere un compito molto difficile trasferire le sfumature emozionali nascoste nei diminutivi e vezzeggiativi in altre lingue dove non esistono tali possibilità. Inoltre, il lettore straniero o lo spettatore straniero possono trovare difficile collegare i differenti nomi (versioni linguistiche dello stesso nome) con la stessa persona. Questo succede anche nel testo drammaturgico Obywatel męczennik. Il protagonista si chiama Kazik ma viene chiamato da sua moglie e da sua madre anche ‘Kazek’ e ‘Kaziczek’. Inoltre, esse usano con elevata frequenza il nome al caso vocativo, con forme quali ‘Kaziku’, ‘Kaziczku’. Nello spettacolo gli spettatori possono non riuscire ad associare queste forme diminutive con il protagonista, oppure se lo fanno comunque non saranno in grado di capire il significato e tutta la tensione emozionale che le accompagna. Nella traduzione scritta è possibile fornire una spiegazione nella nota a piè di pagina, però questa soluzione non è praticabile nel caso di un testo destinato alla rappresentazione teatrale.

Antończyk e Panasiuk (1998: 54) citano un esempio molto interessante sulla traduzione dei nomi dall’articolo Granice możliwości w przekładzie di D. Živanović, studioso e docente nell’ Università di Belgrado e traduttore dal polacco nel serbo. Egli rileva che il nome di Giulietta dalla tragedia Romeo e Giulietta di Shakespeare in serbo-croato è diventato ‘Djulijeta’ (Dziulieta). La forma italiana di questo nome è un diminutivo che di per sé indica la tenerezza, la graziosità di una persona che lo porta. In serbo-croato, al contrario, il suffisso –et in generale ha un valore accrescitivo e anche peggiorativo. Per questo la ‘Djulijeta’ in serbo-croato fa pensare piuttosto a una persona dura e brutale (Antończyk & Panasiuk 1998: 54). Forse sarebbe stato più ragionevole conservare la grafia originale inglese di ‘Juliet’ che comunque contiene anche il suffisso -et, ma perlomeno si presenta e suona come straniero. In ogni modo sembrerebbe una sfida troppo grande cambiare i nomi dei personaggi nel dramma di Shakespeare conosciuto in tutto il mondo.

Eppure, pare che la sostituzione sia possibile nella traduzione di Obywatel męczennik, qualora lo scopo sia rendere comprensibile il testo agli spettatori italiani. Inoltre, sono nomi diffusi che riguardano personaggi che appartengono soltanto a questo dramma. Se ad esempio nel dramma apparisse il personaggio nuovo di ‘Judasz’ oppure di ‘Herkules’, sarebbe ovvio fare la traduzione all’italiano ed usare Giuda e Ercole, visto che questi personaggi sia biblici che mitologici hanno le corrispondenze in quasi tutte le lingue.

Antończyk e Panasiuk (1998: 54) comunque affermano che analizzando le traduzioni si può notare una certa tendenza che prevale oggi nella traduzione dei nomi propri. A loro avviso, lasciare i nomi propri nella loro forma originale rappresenta la soluzione migliore. La maggior parte degli esempi da loro riportati provengono dalle traduzioni in polacco di romanzi italiani famosi. Credo che, tenendo presente le peculiarità dei testi teatrali, si possa affermare che la traduzione drammaturgica serve a uno scopo più complesso nella sua natura rispetto alla traduzione di opere narrative. È sempre opportuno ricordare che i testi teatrali sono stati scritti per essere messi in scena.

L’autore quando gli fu chiesto che cosa l’avesse spinto a scegliere questi nomi particolari oppure se esistesse qualche chiave per comprendere la scelta dei nomi ha rilevato che non vi fosse niente di speciale o straordinario. Così arriviamo al difficile compito del traduttore che cerca di approfondire il contesto e trovare tutti i motivi anche là dove forse non esistono per produrre una traduzione soddisfacente. Le domande ed i problemi sono sempre molteplici e abbondano nel corso di lavoro.

L’azione del dramma si svolge in un appartamento in un conglomerato di condomini, i personaggi sono molto religiosi ed aspettano un miracolo religioso, il parroco è una figura molto importante, si parla delle confessioni. L’autore crea una visione del mondo surreale in cui occorrono avvenimenti strani, il sangue scorre sui tubi, si aspettano i misteri. Questo assomiglia un po’ alla mentalità degli abitanti di paesini piccoli polacchi allontanati molto dai centri urbanizzati.

Gienia, Morsztynowa, e Dukla non hanno significato in polacco come nomi, peraltro sono colti come nomi riferiti tendenzialmente a persone molto religiose, che frequentano la chiesa ogni domenica, ascoltano i sermoni e seguno gli insegnamenti impartiti dal sacerdote durante la messa, e sono inoltre assidui alla confessione durante il primo venerdì del mese. Possono quindi essere scelti i nomi italiani comuni che conosco e ho udito usare in Italia (Nuccia, Signora Ferrugiani, Signor Camci – che non è tipico; del resto, neppure Dukla lo è).

Per Sielski si potrebbe proporre Signor Bucolico cercando di conservare l’idea di bucolicità. Per il dottore ho conservato il nome Laparoscopo che ha lo stesso significato ed è una variazione sia sulla parola polacca ‘laparoskop’ che su quella italiana ‘laparoscopio’.

Per i protagonisti Kazik e Marzenka deciderei di usare i nomi Lucio e Marzia. Casimiro e la sua forma diminutiva (Casimirino) suonano molto strano alle orecchie italiane. Mi ricordo di conoscere un italiano di sessanta anni di nome Lucio (Luciano) che aveva una figlia Marzia. E questo confronte mi ha colpito come adeguato per la traduzione. Kazik non è un nome molto popolare tra i giovani d’oggi, mentre il nome Marzenka si ode più spesso. E poi i protagonisti si chiamano usando le forme diminutive, che possono essere create dai nomi scelti da me, specialmente Lucio – ‘Lucianetto’, ‘Lucianino’. E quindi in italiano abbiamo:

Cittadino Il Martire
I personaggi:
Lucio
Marzia, sua moglie, attualmente incinta
Nuccia, la madre di Lucio, la suocera di Marzia
Signor Bucolico, il vicino
Signora Ferrugiani
Signor Camci
Il parroco
Dottore Laparoscopo

I sudetti nomi dei personaggi costituiscono preliminari suggerimenti per la traduzione del dramma Obywatel męczennik. La decisione di avvicinare il testo al lettore e allo spettatore italiano è il primo passo nel processo traduttivo dell’opera. Il dramma Obywatel męczennik presenta un mondo strano, surreale e grottesco localizzato nella cultura del campanilismo e provincialismo polacco. Tuttavia, l’insieme del carattere grottesco, della dimensione caricaturale e dell’assurdo che pervade l’opera mette in luce l’universalità del mondo del testo e quindi mi sembra possibile cercare di adattarlo per lo spettatore (e non soltanto il lettore) italiano. Questa è la mia risposta alla domanda perché tentando di tradurre il dramma deciderei di cambiare ed adattare i nomi dei personaggi. Proprio alla luce di questi fattori sembra giustificata la decisione di modificarli, così che la traduzione sia congrua con il contesto di arrivo e conduca il pubblico italiano al mondo unico, grottesco ed originale creato da Tomasz Kaczmarek.

Conclusioni

La traduzione di testi letterari che rappresentano la creatività dell’autore e sono pieni di originalità esprimendo le sue idee presentate e proposte in una maniera unica e inconfondibile non può essere un compito facile, specialmente quando tali testi sono radicati nella cultura e nel linguaggio del paese particolare. La traduzione non significa solamente il trasferimento verbale della realtà, cioè il processo di decodificazione e ricodificazione. La traduzione è un’attività che aiuta a conservare l’immagine della cultura di LP nella tradizione e nella forma simbolica comprensibile alla cultura di LA. Il fenomeno della traduzione fa possibile conosciere le opere degli autori stranieri anche se non si parla la loro lingua. Infatti, vi è molto di più per quanto riguarda i vantaggi della traduzione. La lettura ci porta vicino all’autore e la sua sensibilità artistica e allo stesso tempo ci fa conoscere e comprendere altre culture e i loro modi di vivere e di percepire la realtà. La diversità, la varietà e la molteplicità delle culture ci arricchiscono e ci abbelliscono. Certe traduzioni pertanto spesso entrano nel patrimonio letterario e culturale del paese di LA mostrando che l’intraducibile può essere reso con successo.

Bibliografia

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